AGRIGENTO – Maurizio Di Gati al processo di Gerlandino Messina

E’ stato il protagonista assoluto dell’udienza. Quando tra i testimoni compare Maurizio Di Gati, barbiere di Racalmuto, già capomafia provinciale, oggi implacabile accusatore e primario collaboratore di giustizia, si può stare certi, nessuno si annoierà. Ed oggi, così è stato.
Il processo è quello che vede alla sbarra Gerlandino Messina, l’ex primula rossa della mafia agrigentina, detenuto nel super carcere di Tolmezzo e difeso dall’avvocato Salvatore Pennica. Il tribunale che sta celebrando il processo è composto dai giudici Giuseppe Melisenda Giambertoni, presidente con a latere Maria Alessandra Tedde e Giancarlo Caruso. A rappresentare la pubblica accusa, oggi particolarmente efficace, Rita Fulantelli della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e prossima a prendere servizio in Procura generale.

Maurizio Di Gati è stato “l’ospite d’onore”. Un’ora di testimonianza durante la quale ha ripercorso le fasi del suo pentimento, le ragioni della sua decisione, la storia di Cosa nostra ai tempi del suo comando, il pagamento del pizzo da parte degli imprenditori agrigentini, il ruolo di Gerlandino Messina. Spronato dalle domande del Pm, Di Gati è stato implacabile. Dice del boss empedoclino che negli anni del suo scontro con Falsone, era l’uomo forte e in crescita di Cosa nostra. Poteva contare su un esercito di uomini pronti a sparare e su un arsenale micidiale di cui dava visibile contezza girando armato di un mitra kalashnikov e due pistole. Con Di Gati l’empedoclino ha mantenuto rapporti sino al 2005, era stato designato capo mandamento (Siculiana, Relamonte, Montallegro, Porto Empeodcle) per poi, allearsi con Giuseppe Falsone, all’epoca anche lui latitante, e diventare il numero 2 della mafia agrigentina. L’ex barbiere di Racalmuto lo voleva al suo fianco per fare la guerra a Falsone ma Gerlandino decise di passare col più forte, rendendolo ancora più forte. Del boss empedoclino racconta che gestiva le estorsioni a Porto Empedocle dopo la fuga all’estero di Luigi Putrone e la comparsa sul territorio del fratello Giovanni. Lo stesso Di Gati, collaborato da Stefano Fragapane, aveva deciso di uccidere i fratelli Putrone, Luigi perché scappato all’estero facendo perdere di credibilità l’associazione mafiosa; Giovanni perché raccoglieva i proventi del pizzo in nome di Luigi. Poi, il progetto omicidiario venne abbandonato.
Gli imprenditori pagavano tutti il pizzo. In linea di massima il 2% dell’importo complessivo di ogni singolo lavoro. Indica in Giuseppe Burgio e Marco Campione i suoi obiettivi preferiti specificando che il primo pur essendo diventato collaboratore di giustizia continuava a rivolgersi a Cosa nostra per mettere a posto i suoi supermercati mentre conosceva personalmente il secondo e a Giovanni Aquilina aveva demandato il compito di riscuotere le tangenti.
Di Gati ha narrato di mazzette e appalti truccati specificando di aver gestito oltre un milione di euro di tangenti, molte pagate da Campione che aveva rilevato l’Impresem di Salamone e Miccichè. Soldi che ha usato per mantenersi durante la latitanza. Ha indicato in Carmelo Infantino di Giardina Gallotti l’estortore del gruppo Catanzaro per poi specificare che proprio Gerlandino Messina poteva contare di appoggi politici a Porto Empedocle e Realmonte dove sapeva sempre in anticipo quali fossero gli appalti da assegnare.

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