“E’ bello respirare la libertà” Cuffaro lascia il carcere di Rebibbia

La condanna definitiva era a sette anni ma ne ha scontati meno di cinque: 4 anni e 11 mesi per la precisione. Ora che ha chiuso i conti con la giustizia, grazie all’indulto di un anno per i reati “non ostativi” e lo sconto di 45 giorni ogni sei mesi per buona condotta, Totò Cuffaro torna uomo libero. Per lui è la fine di un incubo (gli amici lo chiamano “calvario”) che vuole vivere in una dimensione privata.  

UOMO LIBERO. Emblematiche le sue prime parole da uomo libero. “È bello respirare la libertà. Oggi posso dire di aver superato il carcere. La politica attiva, elettorale e dei partiti è un ricordo bellissimo che non farà parte della mia nuova vita. Ora ho altre priorità. Ho amato la politica e non rinnego nulla di ciò che ho fatto – ha aggiunto -, non mi sento tradito”.

Cuffaro non è uscito dall’ingresso principale del carcere di Rebibbia ma da quello dell’Aula Bunker in via del Casale di San Basilio. L’ex governatore della Sicilia aveva con sé degli scatoloni che contenevano lettere ricevute
durante il suo periodo di detenzione. “Ho ricevuto 14 mila lettere – spiega – sono parte della mia vita. Le terrò con me. Nella mia coscienza sono innocente. Sono andato a sbattere contro la mafia. Tornassi indietro metterei un airbag. Ho fatto degli errori, non mi voglio nascondere io li ho pagati, altri no. Ora credo di avere il diritto di ricominciare”.

“È stato grande il prezzo che ho pagato per aver deciso di stare in mezzo alla gente – spiega -. Appartiene alla mia coscienza ciò che sono stato. Non ne voglio più parlare. Credo di non aver mai favorito la mafia ma di averla sempre osteggiata e parlano gli atti amministrativi per me. Per fare una vera lotta alla mafia credo sia necessario l’impegno delle forze di polizia, dei magistrati. Ma se lasciassimo la lotta solo a loro credo che purtroppo non riusciremmo a raggiungere l’obiettivo finale. È necessario ci sia una grande educazione. E questo è il grande errore della politica. Fin quando non sarà data alle persone la possibilità di scegliere di stare nella legalità sarà difficile vincere la mafia”.

“Non credo la Sicilia sia cambiata in meglio. Io credo che Vecchioni abbia detto una cosa con amore. Forse non lo sa Crocetta ma pure questo è amore. La Sicilia, la nostra terra, è straordinaria, bellissima e merita di essere servita – aggiunge – Quello che vedo nella politica di oggi in Sicilia è poco amore per le cose che si fanno. Quando non ci sono ideali la politica rischia di essere sterile e inumana. È diventata cattiva la politica di ora”.

“Credo che io abbia il dovere di continuare ad occuparmi dei detenuti e di seguire le vicende delle carceri perché possano diventare più umane e vivibili. Vivendo in questi anni dentro una cella insieme ad altri ho capito quanto è importante non sentirsi abbandonati e dimenticati”.

ANDRO’ A VEDERE MAMMA. “Andrò a vedere mia madre. Non mi hanno permesso di vederla. Uno Stato che vuole rieducare non può dire non ti facciamo vedere tua madre perché siccome ha l’arteriosclerosi l’incontro sarebbe svuotato da ogni contenuto di umanità – spiega -. Io credo che lo Stato non debba dirlo e soprattutto chi per conto dello Stato amministra la giustizia”. “Non era scontato che riuscissi a superare il carcere. Non era semplice farcela tenendo sana la mente ed integro il cuore. Il carcere non è un posto normale, ti toglie il fiato e tante altre cose, però non è riuscito a togliermi l’amore della mia famiglia. E non mi ha impedito di amare la mia Sicilia e il nostro Paese”.

“Se ce l’ho fatta lo devo al mio senso delle istituzioni, al rispetto che ho sempre avuto per la giustizia e alla fede che mi ha sempre accompagnato in questi anni difficili – spiega – Ho lasciato fuori le mura qualsiasi tipo di risentimento. Sono un cattolico e il perdono è una delle cose più importanti”.

IL FRATELLO. Ad aspettarlo fuori dal carcere il figlio e il fratello Silvio. “Per noi oggi è il giorno della liberazione. Ci siamo liberati di questo peso, di questo fardello. Iniziamo una nuova vita. È una grande gioia avere di nuovo mio fratello con noi. Una persona sempre presente nella famiglia e che per cinque anni ci è mancata. Siamo pronti a partire verso la Sicilia. Il luogo lo stabilirà lui quando uscirà – aggiunge – Totò ha sempre detto cosa vuole fare da uomo libero. Con la politica ha chiuso”.

LA PENA PIU’ LUNGA. L’ex presidente della Regione siciliana, il politico che ha scontato la pena più lunga, non può assumere incarichi pubblici. Glielo impedisce l’interdizione alla quale è stato pure condannato. Ma tutti pensano che avrà o gli attribuiranno un ruolo politico. L’unica cosa che Cuffaro ha detto, in una lettera al governatore siciliano Rosario Crocetta, è il suo desiderio di recarsi presto in Burundi come volontario.

“Ho già preso contatto – ha scritto – e andrò in Burundi a fare il medico volontario presso l’ospedale Cimbaye Sicilia, l’ospedale che, quand’ero presidente, la Regione Siciliana ha finanziato con i soldi del Fondo della Solidarietà”. Il carcere ha segnato l’ex governatore che ha affrontato la detenzione come prova di vita oltre che di fede. In cella ha anche scritto due libri di sofferta testimonianza: “Il candore delle cornacchie” e “Le carezze della nenia”. Contengono riflessioni maturate in un ambiente dove “si muore e si risorge ogni giorno”.

LE TALPE IN PROCURA. La storia giudiziaria che poi ha portato alla condanna di Cuffaro comincia il 5 novembre 2003 con la scoperta di “talpe” negli uffici della Procura. La rete di spionaggio, che fa capo al ras della sanità privata Michele Aiello prestanome di Bernardo Provenzano, si regge su due insospettabili, Giorgio Riolo sottufficiale del Ros dei carabinieri e Giuseppe Ciuro della Dia, che vengono arrestati. Sono la punta emergente di un sistema di complicità sommerse ma anche di truffe al sistema sanitario. Le indagini coinvolgono un altro sottufficiale dell’Arma, Antonio Borzacchelli, il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro e il presidente della Regione, Salvatore Cuffaro. Il governatore viene individuato, attraverso intercettazioni, come un punto di snodo della rete delle talpe. Sarebbe stato lui il principale terminale delle fughe di notizie su indagini riservate.

Sarebbe stato lui anche ad “avvertire” Guttadauro che gli investigatori avevano piazzato una microspia nel suo salotto di casa. Cuffaro lo aveva appreso a sua volta da Borzacchelli poi eletto deputato all’Assemblea regionale in una lista collegata all’Udc.

LA VICENDA GIUDIZIARIA. Il 2 novembre 2004 Cuffaro è rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra e rivelazione di segreti d’ufficio. Il processo si apre il primo febbraio 2005 davanti alla terza sezione del tribunale e si conclude il 18 gennaio 2008 con la condanna a 5 anni di reclusione. Confermate tutte le imputazioni ma cade l’aggravante del favoreggiamento della mafia. Pesanti le pene per gli altri imputati: 14 anni a Michele Aiello, 7 a Riolo.

Cuffaro, che intanto è stato rieletto nel 2006 presidente della Regione, annuncia che non si dimetterà. Ma le polemiche subito esplose vengono rinfocolate da un’immagine che riprende il governatore con un vassoio di cannoli siciliani. Lui nega di volere “festeggiare” la condanna per favoreggiamento semplice ma l’eco mediatica lo induce a fare un passo indietro e il 26 gennaio 2008 si presenta all’Ars per presentare le sue “dimissioni irrinunciabili” e per annunciare: “Mi batterò in tutte le sedi per affermare la verità”. L’appello però aggrava la posizione dell’ex presidente della Regione.

Il 23 gennaio 2010 la corte d’appello di Palermo riconosce l’aggravante del favoreggiamento di Cosa nostra e condanna Cuffaro a 7 anni. La pena è aumentata anche per Aiello a 15 anni e 6 mesi e per Riolo a 8 anni. L’ultimo atto di una vicenda che segna la caduta del politico da un milione di voti viene scritto dalla Cassazione il 22 gennaio 2011.

Le condanne vengono confermate mentre Cuffaro attende il verdetto raccogliendosi in preghiera in una chiesa e invocando la Madonna. Quando conosce la sentenza prende la strada del carcere di Rebibbia. Prima di varcare il portone del carcere dice ai cronisti: “Sono un uomo delle istituzioni e ho rispetto della magistratura. Affronterò la pena com’è giusto che sia”.

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