Intimidazione al patron del Catania Pulvirenti

“Pulvirenti Infame”. “Pulvirenti Bastardo”. “Pulvirenti vendi la squadra”. “Cosentino Vattene Merda”. Trasudano disprezzo. La città è insozzata da scritte contro Nino Pulvirenti e Pablo Cosentino, presidente e vicepresidente rossazzurri. A Catania amore e odio sono spesso le facce della stessa medaglia. Oggi osannato, domani infangato. Schiere di personaggi pubblici lo hanno provato sulla loro pelle, in particolare nell’ipocrita mondo del calcio. Anche se Cosentino, il vicepresidente rossazzurro, non è mai stato amato.

Adesso tocca ad Antonino Pulvirenti, presidente del Catania dei miracoli, quello che ha rilanciato la storica società calcistica nell’olimpo italiano, la Serie A, che ha convinto la massa di avere realizzato un progetto solido, invulnerabile, proiettato in un futuro privo di gorghi. Bisogna essere sinceri: sono sempre state fantasie da appassionato, da tifoso, da ultrà. Perché il numero uno rossazzurro, quando ha acquistato la società dalla famiglia Gaucci, da vincente si è espresso soltanto inizialmente, promettendo una celere promozione in Serie A. Una volta mantenuta la promessa, però, ha rinfoderato la spada. Anzi, l’ha attaccata al chiodo.  

Il Catania è stato relegato al ruolo dell’umile commensale. La salvezza della categoria come unico obiettivo. Con tanto di bacchettate sue, e di chi lo ha affiancato fra i dirigenti, ai tifosi che dopo la sbornia iniziale si sono, giocoforza, assuefatti e hanno desiderato un Catania non più Cenerentola, ma principe; non da scudetto, intediamoci, ma forte quanto basta per non guardarsi sempre le spalle, così da divertirsi e magari sognare un palcoscenico europeo. Che non sarebbe stata impresa impossibile se, soprattutto in una città dal bacino importante così come il capoluogo etneo, si fosse investito in maniera robusta. Soprattutto oculata.

Ma a Pulvirenti, risottolineiamo, bisogna dare atto di non avere mai illuso, di non avere mai fatto voli pindarici che, evidentemente, sapeva di non potersi permettere; o di non volersi permettere. Adesso, ovviamente, la situazione è ben peggiore del volo pindarico mai saggiato. Il Catania rischia di piombare in Lega Pro, nella vecchia Serie C, che detto così fa ancora più impressione. Il Catania rischia di passare guai peggiori, perché è lecito temere tracolli ancor più pesanti di un’altra retrocessione quando si precipita così fragorosamente dalla vetta più alta, dalla Serie A, all’anticamera del dilettantismo nel giro di due stagioni. E allora ci si arroga il diritto di spedire proiettili in una busta, di imbrattare la propria città per imbrattare la dignità di una persona.

Catania non ragiona. Perché già basterebbe ragionare sul fatto che non bisogna minacciare, non bisogna offendere. E’ roba da incivili, punto. Eppoi, l’argomento è il calcio. Capito? Il calcio. Catania si arrabbia per il calcio. Minaccia per il calcio. Offende per il calcio. Sporca per il calcio. Dice di amare la maglia della propria squadra che rappresenta la propria città e mortifica la propria città.

Catania è un paradosso. Insomma, così come ha detto tempo fa l’ex direttore generale rossazzurro Pietro Lo Monaco ai tifosi che contestavano, giustamente in quel caso, dentro lo stadio al termine di una cattiva prestazione della squadra: “Stendiamo un velo pietoso”. Ora sì, sarebbe proprio il caso di farlo.

FONTE: LA SICILIA

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