RACALMUTO – Trent’anni senza Leonardo Sciascia

Negli ultimi giorni della sua vita Leonardo Sciascia aveva scritto all’amico Gesualdo Bufalino: “Ho l’impressione di stare a temperare una matita dalla punta sempre più fine, ma che non riesce più a scrivere”. Quel fatale impedimento era vissuto da Sciascia come la metafora di una vita che si stava inesorabilmente spegnendo e come un ostacolo crudele all’esercizio di una scrittura a cui assegnava un “destino di verità”. E alla quale non rinunciava neppure in punto di morte, tanto da dettare alla figlia Anna Maria la prefazione, uscita postuma, a una raccolta di articoli per il giornale L’Ora di Giuseppe Antonio Borgese, lo scrittore che aveva tanto amato. Sciascia morì, stroncato da una rara forma di leucemia, nella sua casa di Palermo la mattina del 20 novembre 1989. Aveva 68 anni, la gran parte spesi nella testimonianza di un impegno civile votato alla ragione, alla giustizia e all’esercizio di una critica palpitante del potere. La sua è stata la lezione di un intellettuale disorganico ma soprattutto eretico: lo stesso profilo dei protagonisti dei suoi romanzi e dei suoi saggi.
 La sua scomparsa, trent’anni fa, ha spento una voce che aveva toccato tanti temi di grande attualità. Sciascia non era stato solo lo scrittore che aveva colto in alcuni libri fondamentali (“Il giorno della civetta” e “A ciascuno il suo”) i caratteri nuovi e antichi della mafia e gli interessi criminali, intrecciati con la corruzione e il potere (“Todo modo”). Era anche il grande nemico dell’impostura (“Il Consiglio d’Egitto”) e l’intellettuale inquieto che aveva attaccato le ingiustizie della giustizia, che aveva riletto il caso Moro con un libro concepito come “opera di verità”. E con la politica era passato attraverso la critica del sistema democristiano, il difficile rapporto con il Pci fino alla rottura con Renato Guttuso e la polemica con Enrico Berlinguer, l’approdo nel partito radicale e l’amicizia con Marco Pannella e infine la denuncia sui “professionisti dell’antimafia” che lo portò sul terreno di uno scontro molto duro prima che, una volta raffreddata la temperatura del confronto, e dopo la scomparsa, affiorassero elementi profetici. Una forza intellettuale straordinaria aveva proiettato Sciascia al centro di una trama di relazioni e di scambi con il mondo della cultura. Intensi quelli con Vincenzo Consolo e Italo Calvino, più recenti quelli con Gesualdo Bufalino che aveva scoperto e lanciato. Con Pier Paolo Pasolini divideva un modo di guardare ai fatti e alle storie che esaltava le loro affinità eretiche. “Gli ultimi eretici” è non a caso il titolo di uno dei tanti convegni che in questi giorni rievocano la figura di Sciascia e la sua concezione di illuminista orgoglioso di trovarsi spesso nella condizione di “contraddire e contraddirsi”.
    La sua casa di contrada Noce a Racalmuto, che in questi giorni ha conquistato una nuova forza rievocativa, era per lui un osservatorio della Sicilia come metafora dei mali del mondo.
    La sua non era una visione periferica ma questo era il mondo nel quale era cresciuto e si era formato. Prima della Noce, dove passava le sue estati, c’era comunque la casa di Racalmuto che adesso Giuseppe Di Falco ha recuperato riempiendola di libri e facendola diventare un museo.
    Ma il vero fondo della memoria è nella palazzina della fondazione intestata a Sciascia che raccoglie le sue carte, i suoi libri, i ritratti degli autori più amati, l’epistolario non ancora completamente esplorato. Forse a questo mondo, che racchiude tutta la sua vita, Sciascia si riferiva quando, ispirandosi a Auguste de Villers de L’isle-Adam, fece scrivere sulla sua tomba: “Ce ne ricorderemo, di questo Pianeta”.

La casa di Racalmuto, dalla quale osservava al microscopio il mondo e le sue contraddizioni, adesso è stata recuperata da Giuseppe Di Falco e trasformata in museo. Carte, libri, ritratti degli autori più amati e il suo epistolario sono conservati nella palazzina della fondazione intestata alla memoria di Sciascia.

Memoria di cui si sente quanto mai la mancanza. “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, recita l’epitaffio inciso sulla tomba dello scrittore, perché come spiegò “avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano”.

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