Sciascia e il Paese della ragione smarrita di Francesco La Licata de La Stampa

FRANCESCO LA LICATA
No, questa volta non si tratta di un’invenzione letteraria. E il Comune appena sciolto per mafia non è un luogo immaginario, la Regalpetra di Leonardo Sciascia, ma la Racalmuto di oggi, con le ferite non ancora rimarginate della guerra di mafia degli Anni Novanta, con le lacerazioni dolorose figlie delle accuse sottoscritte dai pentiti che non hanno risparmiato parentele né vecchie e solide amicizie. 

La statua di Siascia, senza piedistallo e appoggiata sul marciapiede, si confonde col popolo dello struscio pomeridiano e sembra aprire l’orecchio ai commenti dei soci del circolo Unione. Chissà se finalmente potrà ascoltare anche un semplice accenno sulla mafia, sulla malapolitica, su come l’amministrazione comunale è stata infiltrata dal malaffare. Già, perché nella patria di Leonardo Sciascia, che di mafia parlò quando tutti ne negavano l’esistenza, il problema continua ad essere rimosso nell’indifferenza generale. Una distrazione che non dove essere estranea al contagio.

Descrivendo la sua Regalpetra, annotava Sciascia: «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione». Era il 1956 e la lontananza dalla «libertà e dalla giustizia» si riferiva soprattutto alla mancanza di equità sociale, all’arretratezza, alla vita grama di chi non aveva né voce né potere. Oggi l’assenza della ragione sta interamente in quella apatia, denunciata da voci isolate come i redattori del periodico «Malgrado tutto» (il giornale «adottato» e protetto dallo scrittore), che non ha saputo o voluto fare tesoro delle terribile esperienza della mattanza mafiosa e della successiva conoscenza del fenomeno scaturita dalle rivelazioni dei pentiti.

La ragione avrebbe imposto un’attenzione maggiore alle conseguenze della faida: se c’è guerra di mafia deve esserci contagio nella società civile e nelle istituzioni. La comunità di Racalmuto quel contagio non ha voluto vederlo. Seppelliti i morti, è scoppiato il silenzio delle armi. E senza cadaveri, si sa, la mafia non esiste. Invece c’era, eccome. Sarebbe bastato andare a guardare dove la commissione prefettizia ha trovato le anomalie che indirizzavano gli appalti sempre nella stessa direzione oppure dare una spiegazione alle presenze, anomale appunto, in seno al consiglio comunale.

Oppure semplicemente chiedersi come mai il Comune continuava a pagare metà stipendio ad un boss condannato e poi divenuto collaboratore di giustizia.

FONTE: LA STAMPA

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