Totò Cuffaro: «In carcere ritrovo Dio» Dialogo con il direttore di Avvenire

LA LETTERA DI TOTO’ CUFFARO
Caro direttore,
il Papa è voluto essere uno di noi, il suo amore e la sua Misericordia sono Cristo. Il carcere non è luogo sconsacrato: «Dove dimora il dolore il suolo è sacro». Cristo arriva e porta pace alla disperazione degli uomini che sono al varco del confine, nelle urne del pianto. Arriva e libera gli spiriti legati alle catene. Cristo è uno dei nostri, fatica con noi per riscattare il nostro passato e per ripristinare i nostri giorni. Lo sentiamo camminare accanto a noi, consola la nostra libertà crocifissa, e a ogni passo sentiamo che il giogo diventa più sopportabile. Lui è stato crocifisso, ma quando vede crocifissi noi detenuti, diventa Cireneo, ci aiuta a portare il peso della croce e cammina insieme a noi e ci rende creature nuove e forti.
Così, sulle macerie delle parole e degli ascolti, dentro il deserto del carcere, poveri in mezzo ai poveri e tutti nella miseria, abbiamo sperato ancora. È proprio dentro questo vivere che abbiamo capito che è cambiata la nostra storia e la nostra vita. 

È in questo luogo che molti di noi hanno trovato l’appuntamento decisivo per l’incontro fondamentale con Chi eravamo convinti di avere incontrato e invece non conoscevamo a fondo. Credevamo di averlo trovato nella liturgie a cui avevamo preso parte, di averlo raggiunto nei pellegrinaggi che avevamo fatto, di esserci stati accanto in meditazione nei ritiri spirituali, ma oggi possiamo dire che l’incontro che veramente ce lo ha fatto conoscere è accaduto qua dentro. In questo luogo, senza cercarla né aspettarla abbiamo sentito la Sua voce: inconfondibile. In questo luogo che tenta di far scomparire l’uomo Lui ci ha svelato la sua dimensione essenziale.

È disumano voler annullare l’uomo. Nessuna disumanità è più grande che far scomparire la persona che ognuno di noi è: precisamente questa è la disumanità del nostro tempo. E lo Stato oggi dà per legge, come mandato al carcere, proprio questa disumanità, mortificare e far sparire l’«io» dei detenuti. Ma un avvenimento che ha la forma di un incontro può salvare. L’incontro fa percepire e fa scoprire il senso della propria dignità. E siccome la personalità umana è composta di intelligenza, di affettività e di libertà, in quell’incontro l’intelligenza si desta in una volontà di verità nuova e l’«io» incomincia a fremere di una affezione alla vita, a sé, agli altri, che prima non aveva. Ma l’avvenimento deve essere riconosciuto ed è necessario «un “io” che lo accolga», soprattutto se è un «io» mortificato qual è quello del detenuto, che ha però un cuore liberamente disponibile ad accoglierlo. Senza cuore, senza che tu abbia cuore, senza che tu sia capace di conservare il cuore che ti è stato dato, senza cuore Dio non può far nulla. Essere se stessi è la risorsa più importante per frenare l’invadenza del carcere, per salvaguardare la propria coscienza e allontanare il pericolo che il carcere alimenta, lusingando la sperdutezza della memoria.

È così, direttore, abbiamo riconosciuto la Sua voce: l’uomo ha questa capacità di riconoscere la “voce buona” che chiama all’incontro decisivo. La voce è inconfondibile. Possiamo non risponderle e tapparci l’animo. Ma è impossibile non riconoscerla. In tanti abbiamo risposto con il più forte grido di dolore che si potesse emettere, perché meglio fosse raccolto dal Cielo: abbiamo gridato e ci siamo sentiti liberi. Abbiamo sentito dentro la nostra carne il dolore, abbiamo capito che dentro il nostro dolore c’era anche la sofferenza degli altri e la sofferenza Sua.

Per questo, direttore, vogliamo gridare ancora più forte, vogliamo riuscire a gridare al posto di chi qua dentro non ha la capacità o la forza di gridare nonostante soffra molto. Vogliamo gridare il dolore di chi non vuole ascoltare e non sa rispondere alla “voce buona”. Soffrire per gli altri è una grande forma di amore e se gridiamo il nostro e il loro dolore, liberiamo la nostra libertà. Giovedì 2 aprile 2015 la voce del Papa era stanca e addolorata ma era “la voce buona”, noi detenuti l’abbiamo riconosciuta subito. Lui era Cristo. Grazie, Francesco.
Totò Cuffaro
Detenuto nel carcere di Rebibbia

LA RISPOSTA DI MARCO TARQUINIO
Lo ammetto: quattro anni fa non avrei neanche pensato di poter pubblicare in prima pagina, come facciamo oggi qui sopra, un testo di Totò Cuffaro. E di farlo al culmine di un tempo pasquale segnato in maniera così esigente da una lancinante attesa di giustizia e di umana risurrezione, in una dura stagione di prova e di speranza nella quale, in Asia e in Africa, milioni e milioni di cristiani amanti della pace portano la croce di Cristo al cospetto di un mondo che, forse, grazie al loro sangue innocente e alla preghiera e ai continui, dolenti e forti richiami di Francesco, il nostro Papa, comincia finalmente a vedere e a capire la malignità delle violenze commesse da persecutori senza umanità e totalmente indegni di pronunciare, da islamici quali si proclamano, il nome di Dio.

La lettera-testimonianza del detenuto Cuffaro, del “potente” caduto e condannato a sette anni di carcere per favoreggiamento aggravato alla mafia, mi ha però colpito sin dalle prime battute e, infine, mi ha scosso e anche commosso.

E proprio per l’«indegnità» che io per primo – da cronista e da garantista a occhi aperti –, sulla base di ciò che i processi avevano portato alla luce, ho associato al nome di questo ex politico di successo. Ricordo, infatti, perfettamente ciò che il 23 gennaio 2011 commentammo, per la penna di Antonio Maria Mira, con severa lucidità contro la letale “zona grigia” tra politica e mafie, e lo pubblicherei e ripubblicherei cento volte, finché necessario… Ma mi preme anche rammentare – lo sottolineo perché ho imparato che non lo si ripete mai abbastanza in un Paese come il nostro, dove un po’ troppi, e in ogni campo, hanno preso a darsi indefettibili metri morali e persino religiosi a misura dei propri autocompiacimenti o delle proprie opinioni culturali e politiche – che ogni giudizio sulla «degnità» o, appunto, sull’«indegnità» può e deve valutare a fondo la concreta azione (il “peccato”) di una persona e ciò che essa produce sul piano del bene e del bene comune, ma non “butta” mai la persona stessa, qualunque persona (qualunque “peccatore”) che è sempre in sé valore non cestinabile. Ebbene, quell’«indegnità» così fortemente e civilmente sentita, giudiziariamente sancita e anche mediaticamente affermata appare ora come convertita da un doppio movimento della coscienza e della volontà di Cuffaro.

Un uomo che considera la propria vita e le proprie scelte, e non si giustifica orgogliosamente né si autoassolve. Che scrive, con disarmata franchezza, del cammino intrapreso per riscattare il passato e a ripristinare i giorni. E confessa che tutto questo è il risultato del nuovo «incontro» con Cristo. Incontro nella forma straordinaria propiziata dalla visita, dalle parole e di gesti compiuti giovedì santo da papa Francesco nel grande carcere romano di Rebibbia. Ma prima ancora nella forma, per così dire, ordinaria (e in realtà sconvolgente) dell’apparentemente anonimo scorrere dei giorni di una persona, umiliata dai propri gravi errori e da una definitiva e solenne sentenza giudiziaria e «mortificata» da una pesante condizione di detenzione, che rivela di aver ritrovato fede e consapevolezza del valore di sé e degli altri oltre le finzioni, le presunzioni e i cinismi del passato.

Un capovolgimento. Del quale Cuffaro parla e del quale è protagonista e responsabile davanti a Dio e davanti a coloro ai quali con questo gesto pubblico si è rivolto. Un fatto che fa riflettere. E, non per ultimo, sullo sguardo profondo e giusto, civilmente cristiano, di coloro che scrissero la Costituzione della Repubblica convinti che bisognasse tenere necessariamente aperta una via in questa direzione. Scandisce il terzo comma dell’articolo 27 della nostra Carta, smentendo Cuffaro, quando definisce la «disumanità» del carcere addirittura il «mandato» della Legge, ma non smentendo purtroppo la condizione di ancora troppi detenuti italiani: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Sì, un capovolgimento. Per tanti forse inimmaginabile, per qualcuno probabilmente incredibile, per altri ancora semplicemente inconcepibile e inaccettabile. Per un cristiano, e per ogni altro uomo che crede in Dio o almeno nella forza della coscienza morale, un cambiamento possibile. Tutto è possibile a chi accetta di portare in petto un «cuore di carne». È possibile anche la conversione dei violenti, dei mafiosi, dei terroristi. Persino di coloro che fanno strage dell’innocenza più inerme. Persino di coloro che oggi sono strumento di sopraffazione e di odio. Per questo il male va fermato e il bene va incontrato e imparato. Per questo l’occasione di ascoltare la «Voce inconfondibile», l’occasione di tornare uomini, figli e fratelli – capaci di rispettare l’altro, e di sentire come propria la sua sofferenza e perciò capaci di cambiare almeno un pezzo di mondo – non va negata a nessuno. Proprio a nessuno.
Marco Tarquinio

FONTE: AVVENIRE
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